Suppa





In realtà, un lutto non passa mai, si trasforma in ricordo, ma rimane dove lo abbiamo lasciato - e ogni tanto fa capolino, sempre uguale e sempre diverso. Sprazzi e spicchi, piccole immagini di quel che fu e che non è più, rimane vivo solo dentro di noi. 
Si tratta di qualcosa di difficilissimo da sopportare, ma allo stesso tempo di delicato da considerare. Chi non c'è più, pensiamo, dove è finito? Il lutto ci mette realmente di fronte al muro-confine invalicabile del trapasso. Riusciamo ad arrivare fino a lì, ma oltre, nemmeno la immaginazione ci può supportare: perché riesce solamente a immaginare se stessa, o noi così come siamo. Ci renderemo conto di essere passati oltre? Che cosa saremo? Non 'dove' saremo, ma proprio 'che cosa': perché sei convinto che, sarà un passaggio di essenza, piuttosto che un trasferimento tra luoghi. Diventeremo altro, e che cosa sarà questo altro, non abbiamo nemmeno mezza parola per provare a raccontarlo. Tu pensi che da 'di laidò vedrai di qua, come uno spettatore, senza possibilità di intervenire, interagire, interferire. Sarai come racchiuso in qualcosa d'altro? Eppure la immaginazione continua a urtare contro questa invariabilità, che è a doppio senso.

Insomma, il lutto porta smarrimento, la scomparsa reimposta  tutto il nostro mondo individuale, lo smonta, lo scassa e poi lo ricompone anche se non sarà mai più quello di prima, che resta irripetibile. Pensi: irripetibile, per l'intera eternità...

A queste cose hai pensato - ma anche a Lisa e a Kikiuz, specialmente, la cui assenza pesa molto ancora, e ti mancano tanto - mentre leggevi questi pensieri di Francesca F, che ha detto molto meglio e così bene gli smarrimenti e le ripartenza che il lutto e la perdita danno a ciascuno di noi...
Francesca li ha scritti in questo suo luttuoso periodo dopo la scomparsa di Suppa, la sua 'figlia canina. 





La tristezza per la mancanza della Suppa è immensa e stratificata, sempre mutevole e silenziosa, quasi subdola. Non c’è unicamente il già grandissimo dolore per la sua perdita, della mia parziale (perché sola non sono) ma infinita solitudine, non solo il dolore del dover essere testimone della partenza di una creatura che desiderava solo vivere e la quale, nonostante il suo straordinario attaccamento alla vita, ora non ha più neppure la coscienza per provare pena per sé, pena per il fatto di non esserci più. Non glielo posso dire: “Suppina, piccola mia, non ci sei più. Che tragedia. Ti sei accorta che te ne stavi andando per sempre da me quando il battito del tuo cuore era sempre più flebile?” Conservo la inutile ma incrollabile certezza che, se lei fosse stata ancora in vita, avrebbe scelto di stare con me e quindi, in qualche modo, anche se lei non c'è, ci sarebbe se potesse. Ma lei non lo sa perché non è più. Lo so io, e questo deve bastare. Non è più un dialogo, è un soliloquio. Ecco, non c’è unicamente “solo” questo. C’è altro. C'è la fine di un mondo, del mondo che lei aveva creato e che io non avevo neanche pensato. Suppa era un mondo assoluto, quasi una categoria del pensiero. Io dicevo "la Suppità". Era un mondo pieno della sua gioia, del suo entusiasmo, dei suoi balzi, delle sue zompate e zampate, dei suoi occhi, dei suoi modi originali e della sua ingombrante personalità, dei suoi abbai, delle sue buffonerie, dei suoi ciuffi senza un ordine ma perfetti, della sua gola, dei suoi riti e della sua piena comprensione della mia realtà. Non solo mi chiedo come farò a vivere senza lei - e per ora vivo a basso regime, mi chiedo anche come è possibile che io possa permanentemente vivere in un altro stato della mente che ora mi è totalmente estraneo, ma mi chiedo come io abbia potuto vivere senza di lei anche prima di incontrarla, mi chiedo come sia possibile che tutti voi che mi leggete abbiate vissuto e vivrete senza Suppa. In momenti come questi vengo invasa da due correnti potenti e contrastanti di disperazione e gratitudine. Sono stati innumerevoli i momenti in cui, annusando il suo pelo o ascoltando il suo respiro, mi concentravo tanto da tentare di rendere infiniti quegli attimi. Era uno sforzo immane, quasi metafisico, per fermare il tempo. Uno sforzo vano, disperato, infinito. 




In questa foto, scattata da mia mamma, aveva poco più di un anno e mezzo ed era reduce da due malattie gravissime, spesso mortali. Ce l'aveva fatta, nonostante tutti i veterinari non le dessero speranze. Lei sapeva che io avevo creduto in lei.

Francesca Chiara

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