Lunacorre racconta





Lunacorre è un'avventura che - come sempre quando si avverano queste situazioni - si origina quando delle persone riescono a creare unione tra l'empatia che supera gli ostacoli di specie e il coraggio che ci vuole per iniziare.

Ce la raccontano molto bene Davide e Rebecca, attraverso le parole di Davide, nella lunghissima e bellissima intervista qui di seguito.

Sei molto contento di essere riuscito a fare questo post, grazie alla collaborazione prolungata nelle settimane di Davide e Rebecca, con la loro pazienza e attenzione. 

Sei sicuro che chi la leggerà, si troverà di fronte a qualcosa di molto speciale, di particolare, una miscela tra diversissime forme di considerazioni per gli individui che nel sistema attuale son marginali e dunque anche complessi da inquadrare. Si scoprono legami e rapporti, c'è spazio per intuitivi ponti tra realtà lontane tra loro.

Buona lettura...






1- Davide e Rebecca, grazie di essere qui. Vi chiedo: quando, come e perché avete ideato Lunacorre? E cosa è Lunacorre (il nome è molto poetico)? Si tratta di un santuario? Di una proposta di futuro? Una forma di lotta?

1- Ciao Giovanni e grazie per l'intervista, il mezzo comunicativo che prediligo perché prevede uno incontro che si realizza passo dopo passo. Scriverò io, Davide, discutendo nel mentre con Rebecca riguardo i temi che ci proponi.
Lunacorre nasce più di quindici anni fa come progetto di volontariato in supporto agli animali detenuti all'interno di un canile lager dell'alto milanese. Cani "da caccia" (come sono odiose queste definizioni...), allevati e parcheggiati in box dal titolare e i suoi "compagni di fucile", insieme a cani "salvati" da altri volontari (io, amaramente, li chiamo "i cani cotti e salvati"... di fatto animali spostati -a cuocere in un altro box- da un inferno all'altro), gatti, furetti e altri animali che finivano nelle mani di un losco figuro proprietario del posto, postosi furbescamente in collegamento fra il mondo dello sfruttamento animale e parte del variegato universo dei cosiddetti "amanti degli animali". Una commistione che si rende protagonista di storie tragiche come quella in cui Rebecca ha, ostinatamente e con passione da quando aveva quattordici anni, provato a destreggiarsi, fino a finirne -stremata e osteggiata- fuori nel 2010. Per quanto riguarda me ho avuto una storia abbastanza simile, coincisa in quell'anno nell'ennesimo cambiamento (che mi ha anche portato al canile di Gallarate dove presto servizio tuttora).
Decidiamo dunque di rilevare insieme una casa con terreno nel basso-varesino, dove andiamo a vivere con mio figlio, i nostri già coinquilini cani e, piano-piano, tutti gli animali che siamo riusciti ad accogliere. Un centinaio di cani sono vissuti con noi, per dei periodi fino all'adozione o finché morte non ci ha separato; decine di gatti, a proposito dei quali ci siamo concentrati sui "malati" non adottati dai gattini. Conigli "da carne" provenienti da sequestri e "da compagnia" divenuti indesiderati. Capre che dovevano essere altrimenti macellate. Galli e galline in fuga. Pesci rossi che resistono fin da prima del nostro arrivo in un laghetto-vasca all'interno del giardino. Insomma, una 'casa-famiglia' in cui godere della reciproca convivenza e attraverso la quale cominciare a recuperare, contando uno sull'altro, dai colpi inferti da un infausto precedente destino. 
Alcuni ci hanno chiesto perchè tirare fuori il concetto di famiglia, così contraddittorio se non addirittura spesso sinonimo di prevaricazione: lo abbiamo deciso spontaneamente insieme da subito. Ci sono dei motivi molto personali alle nostre spalle che ci hanno spinto verso questo recupero concettuale e le forti ragioni "proprie" credo siano sempre valide. Con questo non neghiamo la problematicità del termine. Posso dire che per noi chiamare la nostra "famiglia" questo meraviglioso incrocio di specie è stato un atto salutare e di felicità. Ci chiedi se è un nome poetico? Si, credo che il senso della "Luna" (nome di una cagna sottoposta a maltrattamento terapeutico in un canile dove abbiamo militato io e Rebecca insieme) e del "correre", viaggino proprio alla ricerca di nuove e diverse dimensioni di senso. Santuario? No, la religione, da atei, la terremmo fuori. Una proposta di futuro? Non so, come ti dicevo è stato un moto molto personale, per quanto rivolto alla collettività. Di certo vivere con altri animali è fantastico, per quanto richieda impegno e sviluppo di capacità significative non facili da conseguire. Potremmo considerare un percorso come il nostro una proposta neache tanto implicita: la solitudine di specie fa male, superatela! Ma, soprattutto, fatene una rivoluzione permanente. Una forma di lotta? Sempre e comunque. Non c'è strada che indichi una meta uguale alle altre. Le direzioni della vita possono convergere quanto confliggere. Noi stiamo prima di tutto con gli animali, ci sentiamo loro compagni di viaggio.


2- Su LIberazioni n°43, nel tuo articolo scrivi di come per gli indios la natura è un evento dentro di noi. Pensi che gli occidentali rifiutino questa eventualità? Nei cani, invece, la 'natura' è ancora un evento presente?

A proposito di popoli non contattati o incontaminati o indios, ho imparato che ci sono diversi modi per riferircisi, a partire dall'individuare aspetti che hanno in comune tra loro senza cadere nella discriminazione lessicale e semantica che solitamente scatta a prescindere, con definizione quali "selvaggi", "primitivi", "incivili" etc... Gli indios vivono nella natura senza avere definito una separazione culturale tra l'umano e chi d'altro si muove intorno. L'approccio umanista rifiuta una simile impostazione e genera modi di vivere molto diversi, contrari addirittura, al punto da giudicare 'in assenza di cultura' tutti coloro che non si pongono fuori dalla natura e comportamenti spregevoli le usanze che ne derivano. Noi "progressisti civili sovra-sviluppati" uccidiamo gli animali nei macelli e lo troviamo perfettamente lecito. Gli indios utilizzano le proprie mani e i propri utensili per catturarli direttamente e noi troviamo la cosa moralmente inaccettabile. Non conta che gli animali destinati ai macelli provengano dalle galere terribili che sono gli allevamenti, mentre gli animali della foresta erano liberi e nel loro habitat preservato. La cultura umanista è riuscita ad elevare i propri valori affossando quelli degli altri. Si fonda sulla costruzione di una dicotomia invalicabile fra natura e cultura, con il risultato che lo sfruttamento di coloro che vengono inseriti nella prima categoria (natura) si propaga (costruendo una ragione antitetica). La filosofia politica antispecista moderna osserva che assistiamo ad una diffusione capillare dello sfruttamento violento sugli animali in tutti gli strati e momenti chiave delle società attuali. Tutto sembra procedere nella direzione suggerita da questa insulsa contrapposizione: la guerra tacitamente dichiarata dall'umanità alle altre specie animali. I cani, mi prendo la responsabilità di rappresentarli nella mia risposta, non hanno effettuato alcuno scarto di merito riferito all'appartenenza di specie, dentro di sé non agiscono per perseguire una superiorità di specie e non riportano nei mondi che abitano questa assurda intenzione. La natura non risulta essere un evento separato da combattere; estranei al costrutto creazionista od evoluzionista che pone una categoria di individui al di sopra di tutti gli altri per semplice assonanza di caratteristiche biologiche, si può vivere non dico in pace ed in armonia, ma di certo in maniera più autentica e libera. Un uomo e una donna, per un indios, se privilegiano le sorti di un conspecifico è più difficile che lo facciano per principio di specie, perché attuano scelte dettate maggiormente dalle relazioni e dalle circostanze. Tanto è vero che non hanno mai sentito la necessità di trasformare il territorio in zona propria, lasciandolo a disposizione di ogni suo abitante.





 

3- Gli indios sono buoni custodi, sono in simbiosi. Noi invece siamo aggressivi e ci portiamo fuori dalla natura. Come possiamo cambiare atteggiamento?

Anche gli indios possono essere aggressivi se adottano comportamenti fortemente conflittuali. Capita. Sono piuttosto le culture indigene a non aver raggiunto gradi condivisi di aggressività tali da divenir sistemi di assoggettamento. Le simbiosi che percepiamo osservando da lontano le vite degli indios sono facilmente viziate da mancanze nostre: la maggior parte delle narrazioni sugli indios di cui disponiamo sono fantasiose, frutto di interpretazioni condizionate (essendo popoli incontattati) e la nostra condizione alienata di vita, nell'assenza di partecipazione al mondo naturale incontaminato, tende ad entrare in considerazioni nostalgiche, quando non giudicanti, evitando di cogliere ciò che ci disturba dal punto di osservazione distaccato in cui ci troviamo. Nelle vite degli indios si fà conto anche su forme di parassitismo, caccia e altre conflittualità per nulla bucoliche. Ciò che cambia è il saper restar dentro un insieme senza immaginare di organizzarsi per mettere fuori qualcun altro. Forse per cambiare mentalità, e con essa visioni e rapporti, dobbiamo interrogarci sui grandi e piccoli poteri che governano il mondo. Per farlo aiuta avvalersi di prospettive di vicinanza a chi soffre a causa dei disegni discriminatori percepibili, poi via-via si finisce per riconoscere nelle idee che la nostra cultura ha posto a suo fondamento gli effetti nefasti dell'autoritarismo pernicioso e nascosto. Direi che si tratta di modificare il modo in cui vogliamo bene o vogliamo male agli altri/e. Tutto è possibile che succeda, di bello o di brutto, conta più che altro il quadro in cui avveniamo tuttavia. Nella mia testa si agita una rivoluzione amorosa, non necessariamente pacifica ma densa di sentimenti di rilancio animale, umano e non umano.

4-Veniamo a NoPet. Come, quando e perché è nato il docufilm? Come lo avete montato e quali sono le scene che avete girato originali?

Nopet lo abbiamo pensato io e la mia amica Francesca di Riot dog su una spiaggia di Girona, in Spagna, mentre i suoi cani se la spassavano sulla riva. Era qualche anno che Michele Minunno (una persona eccezionale!) raccontava storie di randagi pugliesi e già qualcuno iniziava a riprendere il concetto di randagismo come piaga sociale, per rivederlo da altre prospettive. Abbiamo voluto dare il nostro contributo per ribaltare l'immaginario negativo che denigra la permanenza in strada dei randagi, che non vi si approccia come ad un fenomeno, che non resta fedele alle diverse realtà di cani che vivono sui territori. Abbiamo voluto estendere la riflessione ad altre tematiche di liberazione intra-umana e abbiamo voluto, soprattutto, provare a sostenere che la libertà non deve essere una farsa, ma un'idea altra, una revisione complessa e problematizzante. Oggi, a proposito, ciò che affligge gli "ambienti di nicchia" è che sta circolando più che un'altra percezione, la percezione opposta, che fà del randagismo un "mito" del tutto umano, volto a coglierne solo gli aspetti positivi. La libertà è un prassi complicata, che si muove tra l'individuale e il comunitario, non una bandiera da sventolare. Bucalo, un antipsichiatra intervistato nel docu-film, metteva in guardia fin da subito dal dividersi un chi vuole i randagi in canile o semplicemente fuori. Si tratta di ridare individualità e senso della comunità, percorsi difficilissimi che possono generare spazio di espressione e, con esso, più opzioni di scelta. Abbiamo girato in particolare la Sicilia, producendo riprese sporche e originali. Il montaggio lo ha svolto Antonella Grieco, non a caso una riassemblatrice di contro-immaginari. Le musiche dell'amico musicista elettronico Giona Vinti hanno contribuito a creare ed enfatizzare un cortocircuito emozionale. La denuncia essenzialmente politica contro l'ideologia e la conseguente industria del pet (fiere, gadget per cani, alimenti sofisticati, strumenti di conduzione e contenzione, vestiti, giochi, varie e crescenti figure professionali, etc...) è l'effetto di un nostro intimo disallineamento alla conformità che minaccia le vite dei cani e le nostre con loro. Le vite di tutti. Non mi resta che constatare che siamo molto lontani dal conseguire una visione riparatrice in tal senso. Se ne parla ancora della tematica "Pet/No Pet", ma un pò non si buca lo "schermo" e un pò mancano le sperimentazioni sul campo che sappiano fungere da esempio per ripopolare le strade con intelligenza.




 

5-La prima scena, del camminamento del canile, fa venire in mente luoghi di detenzione come Guantanamo, Asinara, Goli Otok. Questa associazione è cercata?

Certo, l'apertura viene dall'aver attraversato corridoi simili mille volte ed è una ribellione a quell'abituazione che ci fà credere di averli digeriti e capiti. In ogni attività si verifica, sotto forma di auto-adattamento, un'abitudine al dolore che ci porta ad una forma di insensibilizzazione permanente. E' un meccanismo psicologico primordiale. Eppure le sensazioni "prime" sono rivelatrici di un fulcro da non dimenticare. Ricordo a proposito la prima volta che da ragazzino misi piede in un canile. Io odio il canile, con tutto il mio cuore. Ed è per questo che ci vado quasi tutti i giorni da trent'anni. Quel corridoio è tutti i corridoi dei canili, è tutte le prigioni, sono tutti gli ospedali psichiatrici, sono tutti i tribunali e tutti i luoghi privatizzati in cui gli individui sono costretti e sottomessi agli "alti" voleri, alle logiche di appropriazione delle vite altrui. Sto cercando di scrivere un libro sui canili, non per suggerirne una riforma, bensì un'abolizione senza se e senza ma. I canili sono istituzioni totali, in cui l'internato è condizionato in ogni aspetto dell'esistenza. Sono annichilimenti delle anime, bare aperte sotto il cielo in cui si attende, inermi, l'arrivo della morte che funga da liberazione definitiva (muoiono più cani in canile dei 100'000 rinchiusi l'anno, di quanti ne vengono adottati). Che noi ci impegniamo all'interno è parte di questo rifiuto, non dell'accettazione passiva che desidera instillare chi lo erige il canile. I cani non andrebbero mai in un canile di propria spontanea volontà e chi non riesce ad uscirne ne è vittima due volte, perchè il canile dopo esser stato una condanna viene interiorizzato, non solo da noi ma forzatamente anche dai cani. Quella scena iniziale, protratta oltre, lunga, ondeggiante, pixellata, nauseante, quelle ombre di cani che - solo loro, scure, mischiate, allungate, ricurve - potevano uscire dal box alla nostra vista che visita senza esser contenuta nella morsa detentiva, non sono altro che la manifestazione di un fermo e sentito "No" verso i sistemi di reclusione, qualunque sia l'intento per cui essi professano di agire.

6-Penso al 'passo indietro' di Veronica Papa, al cane come compagno di salvezza di Luca Spennacchio. Cosa pensi di questi punti di vista?

Non conosco Veronica sebbene intuisco cosa possa intendere con "passo indietro". Luca invece è un amico e sì, parla di cani come indicatori di vie di liberazione che si attivano in noi già a partire dall'incosapevolezza, proprio già grazie alla con-presenza umani/cani. E' una visione allo stesso tempo romantica e veritiera ed è questo che mi piace di Luca e che condivido. Non so se, razionalmente parlando, possiamo davvero attribuire ai cani un compito così difficile, quello di portarci fuori dal "proprio stabilito dell'umano". Le teorie di Marchesini indicano uno spazio comune animale capace di mostrare, nella reciproca conoscenza, un' alternativa alla relazione autoreferenziale. Io adotto un approccio forse più politico, contando meno sul fatto che gli individui, immersi in dinamiche sociali compromesse, possano liberare e liberarsi nel rapporto uno a uno. Per me la critica sociale dovrebbe essere maggiormente attivata, a sostegno delle relazioni e in decisa estensione. Di certo molti cani provano a svolgere ruoli di rivoluzione immani e tanti pure ci riescono. Ciò che posso dire a proposito è che è in corso un turbinio di pensieri interessanti, di persone che, a partire dal cane, si pongono domande irrinunciabili sulla vita. Il movimento cinofilosofico dovrebbe rivendicare una connotazione culturale critica importante, prendere spazio nel dibattito pubblico ben oltre la funzione prestazionale educativa, perché i cani stanno facendo nascere quesiti determinanti in molti. Sono rimasti l'anello di congiunzione fra la natura e la cultura che si vogliono separate, ne abitano i margini indotti, brulicano sulle fratture terrestri più come vermi reietti che come "migliori amici dell'uomo". Da quel baratro sanno ricucire pazientemente e con alacrità allo stesso tempo. Come umani ho la sensazione che capiamo ancora molto poco e non so nemmeno quanto possiamo riportare delle loro visioni appassionate e contrarie. Il pericolo della manipolazione è costante. Io mi sento di dichiarare un rischio del fraintendimento perenne. I cani vengono trasformati per i più in una sotto-specie di dei moderni mentre, più che altro, occupano il posto del giullare posizionato vicino al trono del re per compiacerlo. Pagano le conseguenze di una falsa idolatria atteggiata nei loro confronti, ma il loro messaggio può suonare agli umani anche come triste presagio di solitudine che si fà disperata e avvilente. In fondo temo che lo sfruttamento del cane comandi, facendola da padrone, anche nello schema delle conoscenze cinofile odierne. Non vorrei sembrare distruttivo, ma conosco davvero pochi cinofili che riescono a conseguire rapporti paritari che puntano dritti ad una liberazione dei cani. O meglio, ne conosco pochi che cercano veri percorsi di liberazione attraverso, per e con i cani. La cinofilia pare più interessata a divenir una professione, fatta di obiettivi, ruoli e compiti. E più che altro mi sembra molto chiusa nei suoi schemi auto-rappresentativi per poterci aspettare che si apra all'esterno. Aggiungerei che vige un tacito accordo di non belligeranza interno che non contribuisce a produrre criticità diffusa. Oggi abbiamo pochissimissimi pensatori ed un esercito nutrito di educatori "pronti a tutto".




 

7-Nella terza parte del documentario Canile 3.0 su Riot Dog, parli del cambiamento di contesto e di modo di vivere tra cani e umani. I cani non devono guarire, eseguire, essere riabilitati. Possono essere gesti di 'cura violenta'? Quale è il seme del cambiamento di Riot Dog?

Riot dog per me è ascoltare il grido della resistenza canina, volersi porre dall'altra parte di una barricata che si è saputo vedere, a partire dalla ricerca dei motivi di un rifiuto espresso da un cane "che non ci sta", a cominciare dall'emanazione e ricezione sensazionale di quel rifiuto che si rende messaggio in controtendenza. La rivolta è un fatto della vita sociale ed individuale che spaventa i detentori dell'ordine costituito. perché si può pur essere immersi dentro gli schemi del potere credendo di poterne rovesciare i piani. Se siamo davvero vicini ai cani (questa dovrebbe essere la cinofilia, una passione di vicinanza), possiamo scorgere innumerevoli dinieghi al nostro modo di "pensarli" e "agirli"; se siamo davvero interessati ai cani dovremmo dare seguito al nostro trasporto non riproducendo l'enfasi di un ricentramento antropocentrico. C'è oggi chi si sente rivoluzionario nel volerli inserire nella sfera allargata del privilegio di specie, quando potremmo fare di più e indagare le radici profonde che ci uniscono davvero, in quanto animali che rigettano le gerarchie, non in quanto possibile espansione dell'umano. La società è un contratto che i cani di certo non hanno firmato e nemmeno noi, o almeno, la maggior parte degli animali umani non mi pare sia stata interpellata a riguardo. Assistiamo e siamo chiusi in una visione della storia deterministica che ci chiede adeguamento convinto, facendo leva sulle nostre fragili e provate flessibilità. Noi e i cani dovremmo dire basta. Loro lo fanno, spessissimo. Scappano, mordono, occupano spazi non concessi. Noi, soprattutto in quei loro momenti rivelatori, pensiamo invece di doverli educare. Conta troppo l'integrazione e troppo poco la ridefinizione dei confini che ci opprimono. La sete di garanzie batte la ricerca dell'autodeterminazione. Perfino quando affrontiamo un cosiddetto problema comportamentale, dovremmo chiederci se il tilt in cui si trova il cane può essere indice di un invivibilità da fronteggiare piuttosto che di un'incapacità personalizzabile nell'attribuire (magari pensando di poter risolvere). Vanno modificate più le nostre aspettative a vari livelli, che i cani.

8-Nel libro 'So di cane' di Luca Spennacchio, scrivi che 'la libertà è una questione complessa'. Che cosa è la libertà, specialmente se coinvolge più di un individuo in un medesimo contesto comune. Come possiamo fare, agire, vivere, essere liberi insieme?

Innanzitutto mi vien da dire che la libertà è una questione complessa perchè non affrontabile in modo soddisfacente dialetticamente, proprio perchè non indagabile come questione in sé. La libertà semmai è una tensione, a partire dallo smarcamento cercato per l'avvertita mancanza di libertà. Se non è chiaro nelle nostre vite da cosa ci vogliamo liberare è facile che si realizzi una dimensione di sogno della libertà, che ci allontana dal perseguirla come prassi (diventa fin un lamento). Ritengo che sia vivo un pensiero di libertà laddove l'azione interagisce con gli ideali, fintanto che il contesto viene percepito come trasformabile. Venendo ai cani, non penso che i randagi si sentano liberi ad esempio. Magari sono felici o infelici, ma siamo noi - così ancorati alla pretesa di proprietà del cane - che li vediamo liberi o meno. A quel punto possiamo o reinterpretare il vissuto dei cani alla ricerca di quel qualcosa che sentiamo manchi loro (e a noi), o abbandonarci ad un'idea di libertà astratta, virtualmente votata alla nostalgia e alla fascinazione. Nel primo caso proveremo a fare esercizio della libertà, cominciando a discutere quali condizioni ce la impediscano e mettendoci nelle condizioni di respirare quel sentimento antagonista comune che ci lega ai cani. Nel secondo caso il rischio di rendere la libertà una bugia colossale diviene altissimo. Ci sono visioni di libertà reali che ci spingono a cercare "oltre" e mire di conquista spacciate per libertà. Forse è questo uno dei motivi che rende la libertà una parola sulla bocca di tutti, ma un concetto assai lontano dall'essere comunemente perseguito. Comunque direi che la libertà è un fatto collettivo. Per inseguire e assaporare nel mentre la libertà dobbiamo saper abitare il nostro spazio e il nostro tempo, in maniera critica. Ritorno sullo stesso concetto: non c'è libertà se non si mettono in discussione gli stili di vita intuendone l'imposizione e sperimentando le possibilità di mutamento. Libero è chi prova a liberarsi.




 

9-Quando e perché abbiamo perduto le consapevolezze che avevano a che fare coi cani randagi, che invece gli abitanti dei villaggi africani conservano tuttora?

Abbiamo perduto le consapevolezze che venivano dal vivere con i cani per un motivo semplice e tanti motivi complicati da riassumere in quanto localistici. La ragione principale è che abbiamo catturato i cani e costruito una cultura massificata che li ha consegnati alla nostra disponibilità (la cosiddetta cultura cinofila, che poi è strano ambisca ad esser riconosciuta alla stregua di una cultura quando non si fonda sull'analisi e la reinterpretazione delle dinamiche sociali che la riguardano). La gestione del cane cresce di pari passo al nostro reciproco allontanamento, allo sfaldamento delle comunità interspecifiche tutte. Non vivendo più tra noi, ma sotto di noi, abbiamo smarrito la capacità di relazione non mediata con i cani, inserendo via-via le nostre convivenze limitate nei recinti abitativi, nelle aree dedicate dei parchetti, nei luoghi fintamente pubblici non a misura di cani ma di "cane dell'umano". La conoscenza dei cani da generale si è fatta particolare, impoverendosi, laddove un certo particolare auspicabile, nella perdita del contesto un tempo più possibile, ha dato l'impressione di un arricchimento assoluto. Io penso che la lotta al randagismo, sottraendo supporto e confidenza alla convivenza randagia, abbia generato un equivoco storico: riducendo le distanze fisiche e psicologiche (spirituali persino) con i cani si sono interrotte le dinamiche di co-esistenza veramente reciproche. Le misure da ridurre sono sensoriali e politiche semmai, affinché le attenzioni degli uni verso gli altri trovino volta per volta un'opportuna collocazione. In Africa, io sono stato in Tanzania nel 2019 aggregato ad una missione internazionale di vaccinazioni e rilascio immediato dei cani atta a consentire la convivenza pacifica eliminando una malattia trasmissibile (più che a promuoverla secondo schemi occidentali), i cani fanno parte del territorio, delle abitudini, come le persone, gli agenti atmosferici, i mercati, le galline ruspanti, le scimmie, i "nostri" piccioni. Ciò non conduce al raggiungimento della pace generalizzata, ma comporta la realizzazione di un panorama calpestabile di maggior equità. La "mia Africa" è stata una profonda ispirazione di vita, un unico mai potuto respirare prima, un viaggio nell'umano non nettamente scisso dall'animale, un'esperienza che mi ha stimolato la fantasia producendo estreme convinzioni rigeneranti.

10- I cani danno quotidiane prove di intelligenza sociale tra diverse specie, compiendo comportamenti raffinatissimi e precisi. Perché questi comportamenti non vengono notati, quando non vengono addirittura ridicolizzati e banalizzati? Penso anche alla tua intervista a Susan McHugh su Liberazioni n°31-inverno 2017.

I cani non vengono considerati per due questioni di ordine generale: sono animali (quindi "inferiori") e sono fonte d'interessi enormi, materiali e affettivi. La discriminazione a danno degli animali, denominata "specismo", impedisce agli umani di cogliere la pienezza delle esistenze di coloro che sono messi fuori dal confine di specie, arbitrariamente. E' una discriminazione che instupidisce. Si parla infatti di referenti assenti per gli animali non umani. Gli investimenti di tipo umanitario sui cani spesso rispondono alla medesima logica della separazione, agendo in un senso riparativo parziale che può scatenare nuove tipologie di uso. Seppur non riuscendoci affatto, cerchiamo i cani perchè abbiamo bisogno di ristabilire intimamente con il resto del mondo un piano condiviso, ma quel volerli "così comodamente" corrisponde al possederli. Susan parla di doppio legame: tanto li desideriamo tanto approfittiamo di loro. Il femminismo e le sue elaborazioni teorico/pratiche possono aiutarci: desiderare di amare qualcuno passa dal sapere porre il bisogno affettivo in relazione ai bisogni e voleri altrui, affinchè si compia una scelta non unilaterale. Altrimenti l'interesse materiale e narcisistico avrà il sopravvento e il soggetto del nostro amore diventerà un oggetto disposto a nostra completa disposizione. Il "pet" rappresenta la degenerazione del sentimento per gli animali a forma di colossale sfruttamento emergente. Costituisce il più dilagante campo di sfruttamento fra la quasi-totalità dei non umani, in perfetto stile edulcorato moderno. "Tenere animali", cose degli animali, passioni per gli animali che mortificano gli animali stessi. Dovremmo tenere conto maggiormente del pericolo che il "pet" - in quanto invenzione moderna - rappresenta. Mi chiedo: come è possibile che la cinofilia odierna, nelle sue pur diverse varianti e tendenze, sostenga di amare i cani mentre ne approva la selazione razziale ed il commercio? Io dico che non li amano o, al massimo, non ne sono in grado. Comunque l'esito è lo stesso: "il cane che IO voglio".




 

11- 'Scimmiette bambini' e 'lupi cani'. Che cosa significa. E che cosa sono gli adulti umani? E che cosa sono gli adulti cani, specialmente i randagi, che 'si raccontano' tramite te su Liberazioni n°35-inverno 2018.

"Scimmiette e cani" è ciò che ho pensato istintivamente quando, mentre vaccinavo decine e decine di cani africani, dietro e sopra di me su di un albero si erano arrampicati decine di bambini tanzaniani curiosi. I cani paravano lupi momentaneamente in trappola, subito capaci di riprendere dopo la puntura i propri destini senza strascichi. I bambini mi son parsi animaletti agili e furbi, pronti a fare di quel momento un'esperienza di vita coinvolgente e appassionante. Io ero un bianco fuori dal mondo, un umano che si sentiva più umano di loro, troppo, che viveva il momento più lontano dalla contingenza magica del presente. Ero lì però, sebbene anche altrove, ero bianco ed ero nero. Ero uomo e animale. Alla luce del pericolo del virus della rabbia, facevo iniezioni il cui intruglio era ignoto e preparato da chissà chi e chissà come e dove, per sostenere l'idea di un futuro migliore evitando i contagi mortali attivi fra due specie "sorelle". Loro, le scimmiette e i lupi, erano l'essenza pulsante del momento che siamo abituati a perdere, non convinti da generazioni di elucubrazioni storiche che il ruolo primario dell'umano consista nel gestire ogni aspetto che gli si presenta gestibile. E' stato stupendo sentirmi così vicino alla dimensione del presente, in preda ad un disorientamento da ibridazione , così contorniato da animali affini...mi sono anche io sentito intensamente prima di tutto tale: un animale.
Fuori dal mio mondo e per la prima volta dentro completamente. Non riesco a descriverti meglio come mi sentivo. Consiglio a tutti di provarci. Andate dove potete perdervi, per ritrovarvi.

12- Nella cura - di per sé problematica- come si trova l'equilibrio tra intervenire e lasciare andare?

Ah, difficilissimo. Io poi sono molto poco portato alla cura. Quando un volontario lava di fino un box penso sempre a quanto tempo perde della passeggiata (<<in tutto questo tempo potevate arrivare nei boschi...>>). Comunque penso che per trovare un equilibrio tra gli opposti, accanimento terapeutico e fatalismo disinteressato, si possa approfondire la questione esplorando temi generatori quali il ricorso all'eutanasia per i malati terminali. La complicanza con gli animali è sempre la stessa: decidiamo per loro. O meglio, è possibile cogliere i loro messaggi, ma è molto facile cadere in proiezioni personali che si rifanno a condizionamenti sociali nascosti, per questo molto più grandi di noi. Penso che le distanze giuste, anche qui, possano suggerire un posizionamento saggio: se non è lampante il volere del malato, meglio non fare nulla. Se invece la sofferenza è chiara ed insostenibile, aiutarlo a non soffrire diventa il segno di maggiore vicinanza, nella compartecipazione sensibile condivisa. Vanno smontati gli ideali "pro-life", i rimandi alla "natura buona", gli affidamenti ciechi al "progresso scientista". Insomma, l'aspetto clinico e quello comportamentale sono due campi insufficienti ad avvicinarsi alle ampie consapevolezze necessarie a curare bene (per il "bene"). Credo che conti di più l'esperienza del dolore e la testimonianza di chi ci è passato, o ha assistito con effettiva vicinanza il malato, oltre ad una salda ridefinizione del significato della sofferenza nella malattia che si faccia attraversare da uno spirito più animale. In ogni caso io sono un sostenitore di un approccio ai cani multi-disciplinare integrato. Ci sono tante angolature da com-prendere per cercare di vedere meglio una cosa che si fatica a mettere a fuoco da un solo angolo. Dobbiamo allargare lo sguardo per ridefinirlo, sfumandolo.

 

13- Quale tipo di canile vuoi -se ne vuoi uno-? Penso anche alla intervista che hai fatto a Marco Verdone su Liberazioni n°9-estate 2012

Neeessssuuuuuunooooooo: il canile è un brutto storico che va abolito. Più vivo il canile, sono decenni, più lo trovo irriformabile. I problemi si spostano sempre da un piano all'altro. Una prigione, quella è, sarà sempre tale. Ci saranno carceri più vivibili e meno vivibili, carecerieri più o meno compassionevoli, ma tali strutture si fondano sul principio del controllo e dell'espiazione della pena, con l'esito che gli internati non possono che patirne. Quando sento invocare l'innocenza dei cani mi è chiaro quanto sia un discorso fatto allo specchio. I cani sono colpevoli di essere animali in una società specista. Non c'è nessun emendamento che impone di alleviare gli effetti della pena a cui appellarsi. Chi viene sottratto alla propria libertà è finito nel "trita carne sociale", al di là delle effettive responsabilità del comportamento tenuto (che come solito diventa "surplus" figlio dell'iper-culturalismo individualista). Ci sono regole non scritte che orientano le leggi e le convizioni diffuse, poste a diramare un ordinamento teso al mantenimento di precisi privilegi (di specie, genere, etnia, orientamenteìo sessuale, supposta "sanità mentale"). Sento spesso venir pronunciate richieste di legalità in risposta ad un'informalità entro la quale non ci si sà più districare. La stessa "educazione" svolge socialmente la funzione di redimere e riabilitare al dettame sociale. Non lo dico io, lo specificano gli organi costituenti. Gli enti assistenziali sono nati nel '600 per dividere i poveri in "bisognosi riabilitabili" e "punibili per imperdonabile incapacità". Dovendo vivere il canile però capisco bene che ci sono migliorie apportabili e, per dire la cosa che trovo più importante, è necessario che chi è fuori dalle gabbie, ad agire dentro le mura per impegnarsi a favore dei cani, crei un gruppo che si confronta sulle singole esistenze recluse e sulle possibilità che offre il territorio, sapendo aprire quei cancelli il più possibile all'uscita, affrontando i compromessi del reinserimento sociale. Perchè prima di tutto chi detiene in canile deve puntare al rilascio, dato che oggi non possiamo chiuderli questi non-luoghi di concentramento canino, e ce ne viene affidata la gestione in quanto volontari che svolgono su delega un lavoro istituzionale. So bene che molti mi criticheranno perché valutano più importante il "non rientro" che l'uscita del cane: si parla così tanto di "adozione consapevole" che mi viene il volta stomaco (come se noi fossimo consapevoli delle scelte che facciamo). Io dico che è fondamentale non rientrare in canile dopo l'affido, ma ancor di più lo è costruire le possibilità di evadere, che sia la migliore vita quella che si troverà o meno. Si dice che la consapevolezza renda vantaggioso l'investimento. Forse succede se sei veramente in gamba; la maggior parte delle volte essere troppo consapevole porta alla rinuncia. Aggiungi poi che non sei tu quello in cella... E' la direzione del reinserimento che discuto, le cosiddette poliche educative (di cui si parla "zero"): ci interessa più fare un buon lavoro noi o sostenere le possibilità che stanno nel "poter vivere" per i cani? Per quanti cani ho visto rifiutare adozioni non perfette contando su una speranza vaga rimandata ad un futuro più sicuro...che non si è palesato mai più. Il discorso è lungo e si rischia di impantanarsi nell'ideologico. Concludo dicendo che moltissimi cani "meno pronti", una volta fuori di galera, hanno saputo adattarsi, approvando la destinazione che gli era stata assegnata. Mentre moltissimi cani "pronti" non si sono adattati o son tornati, perché la situazione non gli è risultata una liberazione soddisfacente (a loro, non a noi). Gli adottanti di cani che desiderano davvero un cane, lo tengono imparando ad accettare, trovando il modo di proseguire anche nelle difficoltà. Gli adottanti che vogliono un cane ma non le conseguenze impreviste, cedono dimostrando un "non attaccamento". Oggi si dà troppa importanza al comportamento, perchè non ci si permette più di essere sinceri tra umani. Non crediamo collettivamente nel cambiamento, abitiamo un'epoca sgonfia, depressa, rinunciataria. Allora istituiamo forme di conoscenza che non si intrecciano al vivere, dividendo in "capaci" ed "incapaci" i cani, pronte o non pronte le persone, tutti. Si dice che l'abbandono è un problema di gestione dei cani, io dico piuttosto che è un problema di legami, tra umani e cani. Con "relazione" non si indicano forse tra gli umani i rapporti affettivi? Non dovremmo temere le affettività perchè non offrono soluzioni protocollabili. Sono convinto che possiamo sostenerne i risvolti liberatori. Di fronte ad una richiesta d'affido escludo il certo e sperimento ogni volta tutto ciò che può stupirmi (che di solito è quasi tutto). Lo faccio perchè se devo volere un canile, ne voglio uno che agisca contro sè stesso, con tutte le forze.

14- Che cosa è il "pensiero meticcio", di cui scrivi su Liberazioni n°36-primavera 2019? Può spezzare le catene invisibili che ci poniamo addosso, di cui parli su Liberazioni n°37- estate 2019.

"Pensare meticcio" è un paradigma antropologico fondamentale per approcciarsi allo studio e all’analisi dell’alterità culturale e delle comunità umane e non umane.
L’identità nella vita diventa importante per rispondere a due domande problematiche che si pone l’umano, partendo dalla suddivisione impostata contro l'animalità: chi sono io? chi sono gli altri? Tuttavia l’identità culturale se da un lato permette una visione particolare del mondo, aiutandoci ad interpretare e semplificare la sua complessità, dall’altro lato impedisce di comprendere le ragioni degli altri, conducendo a una visione etnocentrica fatta d’intolleranza, discriminazione fino al razzismo "puro". Incontrare l’altro significa incontrare l’alterità culturale in quanto ognuno vede il mondo in modo soggettivo e a partire da una propria esperienza personale. A ben vedere ogni identità culturale è il risultato di un continuo processo di costruzione sociale, politica e culturale in continua trasformazione, mutamento. Essendo prodotti storici suscettibili di cambiamento, le identità etnico-culturali non possono essere considerate omogenee, chiuse, fissate, bensì bisogna vederle come immesse in un processo di costruzione continua; le identità culturali sono sempre in movimento. E’ impossibile pensare ad una civiltà senza rendersi conto che essa esiste solamente grazie ad un processo storico di contatto, scontro e ibridazione tra popoli differenti portatori di tratti culturali differenti. E’ proprio per questa continua ibridazione e contaminazione tra popoli e culture differenti che è impensabile definire la cultura come un blocco omogeneo e inalterabile nel tempo.  L’impatto di una nuova cultura su una cultura autoctona è segnato dal confronto-scontro tra due modi differenti di vedere ed interpretare il mondo che partono dalle differenti categorie culturali che abbiamo interiorizzato a partire dalla socializzazione primaria. Questo confronto-scontro tra culture differenti permette alla cultura autoctona, che si sente “invasa”, di selezionare elementi della cultura nuova, cercando di rielaborarli e normalizzandoli all’interno della propria identità culturale. Laplantine (autore del libro 'Pensiero Meticcio' - edizioni Eleuthera) sostiene : “Alla nozione di purezza originale noi opporremmo la nozione di “perverso, polimorfo”, applicata alla cultura. Questo significa che l’identità culturale, nel modo in cui spesso è stata appresa, non esiste affatto”. Perchè non approcciarsi così anche ai cani, portatori di culture proprie, popoli i cui territori sono stati invasi, deportati nelle case o nei canili, studiati in cinofilia come facessero capo ad un ente naturale a sè stante, piegati tramite addestramenti e sedute educative volte a renderli più compatibili con l'umano per come si è giunto a concepire? I cani, naturalmente e culturalmente fuori dalle logiche del mercato delle razze, in pochissime generazioni rigenererebbero una popolazione meticcia, allora la domanda è: chi siamo noi per impedirglielo, per frenare le loro diramazioni vitali, libere ed inquietanti, incanalandole nel paradigma illusiorio rassicurante della purezza? Pensiero Meticcio è diventato il nome dell'assocaizione che gestisce il canile e il gattile in cui mi adopero: pensavano in molti che proponessi un nome per i "bastardini"...invece? Bhe, anche...
15- Che cosa sono le emozioni degli animali, come ne parli su Liberazioni n°40-primavera 2020?

Per me sono tutto, non perché non esistono le emozioni dei "non cani". Nel senso che non esistono emozioni di qualcuno in particolare. La dico così: le emozioni sono il pasto e il comportamento sono gli ingredienti. Quando mangi assapori un insieme, una mescolanza, il tempo e la cura occorsi, il condimento, il momento in cui sei, i ricordi che ti scatena il tutto. L'alimento è solo, nella sua astrattezza dal contesto. Può piacerti più una banana che un kiwi, ma non saprai mai il perché. E' così e basta. Gli ingredienti sono divisivi, i piatti conviviali. Faccio un esempio recente: ho fatto adottare un cane femmina lupoide ad una famiglia. Una giovane cagna che li ha messi alla prova cercando sempre il sapore intenso della relazione multipla. Quando si mettono sul divano a vedere la tv, sale su di loro. Gli affidatari  e l'educatrice di riferimento prima provano a farle accettare la coperta a terra, il set (che palle sti "set" !!), poi comprano un secondo divano per lei. Ma la cagna va sempre sul primo divano cercando loro, nell'unico posto in cui li trova. Viene consigliato da un'altra professionista di alzarsi ogni volta che la cagna sale, ad essere più testardi di lei. Durante questo ripetuto su e giù, alla fine la cagna sale sul tavolino davanti al divano e, sbigottita, li guarda. E' come avere una torta e volerla mangiare "noi" senza darla al cane. Il cane vuole condividere e salta verso la torta. Allora compri una torta apposta per il cane, ma lui vuole sempre la tua (nostra?) torta. Perchè non mangiare insieme invece che disporre di due torte diverse? Analizzando queste frequenti dinamiche di esclusione tendiamo a credere che non possiamo dire agli umani di mangiare la stessa torta col cane e intanto pensiamo ancora però di sapere come agevolare le convivenze. Facilitatori di relazioni si dice? Sovente si diventa facilitatori di proprietà. Chiediamo sempre di capire ai cani, senza capire di procedere in questo verso, convinti di far del bene innanzitutto a loro. Non dico di non preparare delle fette e di mangiare tutti lo stesso boccone, parlo del tenere presente che ci sono questioni potenzialmente comuni da condividere con i cani che loro desiderano esplorare e noi spesso no. L'emozione del cane è stata schiacciata dall'aspettativa del "comportamento consono", privilegiando la scelta dell'ingrediente preferito da procurarsi, invece che riconoscere il sapore del cibo da gustarsi insieme. Il cane che sale sul tavolino crede in quell'emozione comune, gli umani che si alzano e si abbassano in continuazione costituiscono il ripetersi ottuso dell'ignoranza della relazione che non coglie l'emozione pulsante. Se ci vedessimo come ci vedono i cani, scommetto che ci vedremmo persone che non sanno quello che vogliono, ciò che cercano. Le emozioni ci sfuggono facilmente perché non sottostanno a alcun convincimento esterno. E' quello il bello! Dovremmo partire dallo scardinare i convincimenti dati per scontati. Le emozioni suggeriscono il vivere, così come l'intuizione ne segue la scia (così come l'intelligenza sociale non la si considera dote trasmissibile). I cani vogliono vivere e vogliono vivere di solito molto più di quando riusciamo a volerlo noi. Per questo i cani mi fanno impazzire: mi coinvolgono in un vortice di desiderio indistinto che per me, dicevo, è tutto.
Concludo con una provocazione: era meglio che la mettevano in giardino la cagna che voleva il divano. Poteva distrarsi più agevolmente. Poteva sottrarsi a due mesi di esercizi estenuanti che mettono a dura prova anche un santo, fino ad indurre un'atteggiamento di competizione che attraversa ogni altra circostanza. E magari era ancora meglio che quel giardino non fosse cintato, in modo che poteva trovarsi altro da fare. E nemmeno il giardino degli altri cani del quartiere, che così si potevano incontrare. Avanti fino al paese dopo...Ok, si fa troppo lunga: vi saluto....

2 commenti:

  1. grazie Giovanni...ci hai fatto ripensare a noi!! Dav, Becca ;>

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    1. grazie a voi per avermi dato la posibilità di esportli. Questa intervista è bellissima e piena di motivi per rilettere

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